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I think the idea of mixing luxury and mass-market fashion is very modern, very now - no one wears.
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    Bacheca

    Da Dicembre 2020, Mo’ Better Football, in collaborazione con Associazione Culturale Stoff Aps per il progetto Dedalo, ha inaugurato una bacheca in cui ciclicamente verranno esposte e raccontate storie di calcio, ma che non sono solo pallone.

    Posizionato all’angolo tra via Carteria e via De’ Correggi in centro a Modena, la bacheca è un invito rivolto ai passanti, un’iniziativa con la quale offrire la possibilità di scoprire una storia da cui far nascere la voglia di conoscerne altre.

    Un’affiches in cui la narrazione si compone di testo e illustrazione, grazie al tratto di Collettivo Fx, un gruppo di artisti tra i più attivi nel panorama italiano, appartenente alla street art in senso stretto, capaci di realizzare illustrazioni nello spazio urbano con un fortissimo valore site specific. La ricerca sulla storia dei luoghi dove dipingere è l’anima stessa del lavoro del Collettivo, che spesso privilegia il contenuto allo stile facendo dell’urgenza espressiva un leitmotiv che ne rende il tratto inconfondibile.

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    Tregua di Natale del 1914

    Per qualcuno si tratta semplicemente della storia di qualcosa che non è mai avvenuto, per altri è un’iperbole romantica di qualche improvvisato calcio al pallone che, durante la guerra, i soldati tedeschi da una parte e quelli alleati dall’altra ogni tanto capitava dessero, ma senza la benché minima intenzione di andare oltre.

    Probabilmente non si conoscerà mai la verità fino in fondo e bisognerà scegliere che idea farsi in base alle poche cronache dell’epoca ma soprattutto alla propria soglia emotiva.

    In ogni caso stiamo parlando di qualcosa che è successo una vigilia di Natale, quella del 24 dicembre 1914, in piena Prima Guerra Mondiale, in Belgio sul campo di battaglia di Ypres.

    Il 20° secolo era all’inizio e aveva già perso la sua innocenza, la guerra si stava trasformando in un tritacarne e i soldati sembravano solo aspettare il loro turno per morire e proprio quel dicembre viene raccontato come il momento più terribile.

    Cosa può mai c’entrare il calcio tutto questo?

    La vigilia di Natale del 1914, in un racconto che mescola giornalismo storico, cronache di guerra e una certa dose romanticismo, i soldati scesero in trincee che si fronteggiavano a non più di 150 metri le une dalle altre.

    Le cronache raccontano che a un certo punto il silenzio e il terrore non furono interrotti come sempre dai primi spari e dalle urla che li seguivano ma da voci insolitamente calme che provenivano dal lato tedesco accompagnate da mani che reggevano delle candele accese. Dopo un’iniziale titubanza, la risposta degli alleati fu sventolare i berretti e a quel punto iniziarono dei canti natalizi.

    “Non si spara, non si spara.”

    I soldati si alzarono dalle trincee e, calpestando il fango congelato nella notte, si avvicinarono.

    Ernie Williams, un soldato inglese che all’epoca aveva diciannove anni raccontò:

    A un certo punto apparve un pallone, non so da dove ma lo calciarono i tedeschi. Fu un attimo: i cappotti gettati per terra servirono per fare i pali, nessun arbitro e si cominciò una di quelle partite che giochi da bambino.

    Il tenente Charles Brockbank lo ha definito “un incidente straordinario…”, mentre un suo pari grado tedesco, Johannes Niemann, ancora vent’anni fa dichiarava con certezza:

    Il pallone arrivò da un soldato scozzese, il tempo di fare le porte e ci trovammo a giocare una partita di calcio su quella terra ghiacciata. Avevamo gli stivali, eravamo esausti e psicologicamente allo stremo, ma abbiamo continuato con un entusiasmo incredibile. Abbiamo vinto noi, 3 – 2 per ‘Fritz’ contro ‘Tommy.’

    Uno degli aspetti più interessanti di questa storia sono proprio i racconti di soldati che guardano il nemico e vedono qualcuno che assomiglia molto a loro.

    Che il “Truce Football Match”, rimasto nella memoria come “La tregua di Natale”, abbia dosi di storia e leggenda non proprio precise, non importa poi così tanto.

    Per quei ragazzi ha significato strette di mano, scambio di sigarette, fotografie di mogli e fidanzate da far vedere, una partita di calcio sgangherata vissuta come vero football. Ha significato, anche se per poche ore, serenità.

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    I fratelli Sentimenti

    A Bomporto, nel luglio del 1920, in una famiglia paragonabile a una dinastia calcistica nasce Lucidio Sentimenti.

    Si racconta che l’origine della sua storia sia una lettera in cui scrisse:

    Ho quasi quindici anni, faccio il garzone da un calzolaio per 15 lire a settimana, vorrei giocare a pallone. Va bene qualsiasi ruolo, anche portiere.

    Qualche mese dopo si ritrova nel Modena, dove esordirà in Serie B senza avere un vero e proprio ruolo: gioca da portiere a volte e da attaccante altre. Con il Modena arriva in Serie A, dimostra ottime qualità atletiche anche se è tutt’altro che alto e tra i pali è forte.

    Lucidio è tifoso della Juventus e a Torino sulla sponda bianconera sono alla ricerca di un portiere affidabile e di prospettiva… Con la Juventus, nel 1942, debutta a Venezia e in 7 stagioni metterà insieme 169 presenze e un goal (il secondo della carriera).

    È lui il primo portire goleador in Italia.

    Conquista anche la maglia azzurra e, nel maggio 1947, è protagonista della vittoria contro l’Ungheria di Puskás in una formazione composta da lui e dieci giocatori del Grande Torino. Gli Azzurri in quegli anni sono solitamente undici giocatori granata. Cochi Sentimenti difende la porta bianconera durante campionati che erano resi proibitivi dalla superiorità del Grande Torino. Nel 1949, a ventinove anni, accetta malvolentieri la cessione alla Lazio, dove però ritrova una seconda giovinezza e anche il posto in Nazionale.

    Quando gli veniva chiesto quale fosse stato il goal che gli aveva fatto più male, non aveva dubbi:

    Un goal che segnai io su rigore in un Napoli – Modena. Il portiere del Napoli era mio fratello Arnaldo che era un formidabile pararigori, aveva parato consecutivamente gli ultimi nove e fui io a interrompere il suo record.

    Gianni Brera lo descriveva “freddissimo determinista, dotato di un’astuzia luciferina.”

    E così lo raccontava con la sua meravigliosa penna Vladimiro Caminiti:

    Nei giorni dopo la guerra, che sono di atavica fame, portieri di ogni formato si esibiscono in Italia. Nella Juventus si alternano, ancora per poco, Micheloni e il vecchio Perucchetti, mezzo clown e mezzo artista, che ha trentaquattro anni, ma già si affaccia il giovane Lucidio Sentimenti, quarto di una famiglia modenese di Bomporto dedita a sane bevute e a interminabili partite di calcio, destinato a giocare in porta, perché il meno appariscente fisicamente dei fratelli, e anzi, a dire il vero, di figura un tantino tozza.

    Il fatto è che a Cochi, questo è il soprannome con cui lo indicano e strapazzano specialmente i fratelli Arnaldo e Vittorio, va di contraggenio a fare il portiere e, quando può, viene fuori e molla le sue sacramentali legnate di destro con le quali segna goal irresistibili.

    Sono i giorni ruggenti del Torino, quando Sentimenti IV si trasferisce definitivamente nella Juventus. Il derby è il derby, le parate di Cochi impediscono in più di una circostanza al Grande Toro punteggi straripanti. Nasce il mito di questo portiere tarchiato e flessuoso, brevilineo dal portentoso colpo d’occhio, quasi imbattibile nell’area piccola, che domina con pugni che sono autentiche mazzate, specialista nelle uscite contro l’attaccante solo, che risolve con una tecnica personale.

    Si parlerà solo negli anni ’80 di portieri con la somma di qualità che Sentimenti IV mostra già negli anni ’40, il primo portiere calciatore d’Italia e d’Europa.

    L’Avvocato, che di calcio se ne intende, dirà che Sentimenti IV è stato il portiere più grande che egli abbia visto giocare nella sua Juventus. Potentissima macchina atletica, Cochi si allenava come gli ostacolisti, per esercitare i suoi magici lombi, e Bacigalupo aveva nel portafogli, restituito dalla lurida fiammata che distrusse il Grande Torino, la sua fotografia. Nella tradizione del ruolo, in Italia almeno, nessun portiere è mai stato altresì calciatore come Cochi Sentimenti, dalle rimesse in gioco che erano un vero lancio per il centrattacco e diedero l’avvio a tanti goal di Boniperti ventenne.

     

    “Mi sentivo forte, mi sentivo come un leone, ero padrone dei miei pali e della mia area, avevo un rinvio lungo e preciso e non avevo paura di uscire. Perché mi lanciavo giù con i piedi e mai di faccia o di braccia?”

    mo' better football collettivo FX bacheca krumkachy

    NFC Krumkachy Minsk

    Non c’è nessun virus qui. Non c’è niente da sospendere, nemmeno il campionato di calcio.

    È il marzo del 2020 quando, mentre tutto il mondo si ferma e cerca protezione, Aleksandr Lukashenko fa questa dichiarazione. Il campionato bielorusso prosegue e assume i contorni di un goffo e decisamente mal riuscito tentativo di propaganda.

    Gli stadi semivuoti dimostrano la sfiducia che la popolazione nutre verso le autorità e chi le guida, che d’altra parte sta preparando qualcosa di più importante: le elezioni di agosto che devono garantirgli il proseguimento dei suoi consecutivi 26 anni di governo. Lukashenko aveva vinto la prima elezione democratica della Bielorussia nel 1994, poi ha scoperto che l’energia a basso costo poteva essere uno straordinario strumento di potere e ha messo da parte la democrazia.

    I principi etici si confermano piuttosto fragili anche altrove: se non si gioca da nessuna parte può andar bene anche la non troppo affascinante Belarus Premier League e così ne vengono sorprendentemente venduti i diritti televisivi in 11 paesi. A Minsk e dintorni intanto si registrano i primi ricoveri ufficiali causati dal virus e, il 13 aprile, Lukashenko appare in tv per dichiarare:

    Annuncio pubblicamente che nel nostro amato paese nessuno morirà di Covid-19.
    È la mia ferma convinzione.

    Evidentemente solo la sua perché pochi giorni dopo i bielorussi morti a causa del virus sono 135.

     

    Agosto 2020. La rabbia della gente non può più essere contenuta: agli oltre 10 anni di crescente difficoltà economica, a una dittatura sempre più evidente, si sono aggiunti l’approccio sconsiderato alla pandemia e la sensazione che si stia per assistere alle ennesime elezioni farsa. Mancano 3 giorni e i sondaggi che danno alla candidata dell’opposizione Svetlana Tikhanovskaya oltre l’80% dei voti sembrano destinati a evaporare. Per rispondere all’ONU, che descrive le imminenti elezioni bielorusse come “né libere, né eque”, Lukashenko sceglie di apparire con in mano un AK-47 e di far sparare proiettili di gomma sui manifestanti.

    Nel frattempo il campionato di calcio si trascina anonimamente e il silenzio che arriva dallo sport sembra confermarlo come uno strumento politico che Lukashenko ha sempre utilizzato per alimentare il potere e dimostrare il successo del suo sistema politico.

     

    O almeno va così fino al 6 agosto.

    A Soligorsk, una città mineraria a sud della capitale, si gioca Shakhtar Soligorsk – Dinamo Brest e il soporifero 0-0 che si registra a poco più di 10 minuti dalla fine è in piena sintonia con l’andamento del campionato. Poi succede che Dmitry Postrelov, centravanti dello Shakhtar, riceve palla al limite dell’area, salta un difensore, calcia e segna. Niente di che, è solo un gol, ma le poche decine di spettatori intonano Zhive Belarus, canto dell’opposizione al regime. Il giorno seguente, la federazione calcio bielorussa annuncia il rinvio di alcune partite e Lukashenko dichiara:

    Il calcio non è più una competizione, nemmeno una battaglia, è una guerra. Perché lo sport è diventato politica.

    Come previsto il 9 agosto le elezioni invertono i dati dei sondaggi; Svetlana Tikhanovskaya ripara in Lituania, ma con una lettera aperta i protagonisti dello sport bielorusso denunciano la dittatura, comunicano il loro appoggio all’opposizione e chiedono il rilascio dei prigionieri politici. Il governo deve fronteggiare la protesta crescente e il campionato di calcio si trasforma in un teatro del dissenso. Quando segnano i giocatori festeggiano alzando due dita in un pugno idealmente ammanettato che diventa simbolo dell’opposizione e sulle tribune si susseguno solo cori anti-regime. I calciatori iniziano a esporsi direttamente: Ilya Shukrin, astro nascente del calcio bielorusso, annuncia che non vestirà la maglia della nazionale finché sarà permesso a Lukashenko di governare. Infatti a oggi non lo ha ancora fatto.

    Alcuni partecipano alle manifestazioni e vengono arrestati, ma è martedì 1 settembre in una partita della Coppa di Bielorussia che sport e regime diventano avversari.

    A Minsk è in programma il derby tra il Krumkachy, piccolo club di seconda divisione, e la Dinamo Minsk. Il risultato non può essere in discussione, per la Dinamo si tratta quasi di una partitella infrasettimanale. Il Krumkachy ha oltretutto riabbraciato da appena un giorno Sjarhej Kazeka e Pavel Rassolsko, due giocatori che erano stati arrestati durante un corteo, e rilasciati dopo 24 ore di pestaggi.

     

    Ma andrà diversamente.

    Il Krumkachy esce dagli spogliatoi indossando una maglietta che denuncia la violenza del regime e al fischio dell’arbitro, Aleksandr Yatskevich passa la palla agli avversari con i compagni di squadra che rimangono fermi nella loro metà campo.

    Dalla tribuna del minuscolo Kfp Minsk Stadium iniziano i cori che invocano democrazia e libertà, dopo qualche secondo la partita comincia davvero e finirà 2-0 per il Krumkachy, ma soprattutto al termine ci sarà un abbraccio collettivo tra i giocatori delle due squadre e i tifosi.

    La scena si ripeterà al termine di ogni partita fino alla fine del campionato.

    L’incantesimo di Aleksandr Lukashenko sul calcio è svanito.